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venerdì 13 maggio 2022

I COLORI SECONDARI - il pre-testo cromatico della competenza

Le tre filastrocche sui colori secondari, intenzionalmente diverse per struttura e forma espositiva, mettono in evidenza la progressione della difficoltà crescente che permea la programmazione per competenze:
🧡nella prima (arancione) si insiste sulla dimensione contenutistico-conoscitiva e sull'abilità del suo utilizzo per ricreare un modello; https://www.facebook.com/110505820799002/posts/377053514144230/?sfnsn=scwspmo
💚nella seconda (il verde) si esplora la dimensione creativa, determinata dal superamento del modello e dal cambio di prospettiva con cui si guarda alla propria produzione casuale o intenzionale; https://www.facebook.com/110505820799002/posts/384573823392199/?sfnsn=scwspmo
💜in quest'ultima (il viola) si approda alla dimensione riflessiva evocata dalla metafora, si decentra il proprio punto di vista per accogliere quello altrui, si guarda oltre la qualità percettiva del colore per tracciarne i contorni valoriali che sostanziano il pensiero.





COLORI SECONDARI: l'arancione
Accogliendo i suggerimenti autunnali, possiamo esplorare i colori e le loro interazioni anche aiutandoci con semplici filastrocche che imprimono nei bambini il ricordo degli elementi, delle proporzioni e dei gesti, "esasperandoli ludicamente"...
Buon divertimento!

COLORI SECONDARI: il verde
Anche una semplice filastrocca può avvicinare i bambini alla poesia e alla magia della CREATIVITA', attraverso la meraviglia del cambiamento:
come fa il cielo a diventare prato? come fa la notte a diventare giorno? come fa il su/sopra a diventare giù/sotto?
Perché "creatività" vuol dire determinare trasformazioni che permettono di cambiare la prospettiva cognitiva ed emotiva dell'osservatore.


Ma una filastrocca è anche un ottimo strumento logopedico e di ampliamento del bagaglio lessicale: si gioca con le rime, le assonanze e le consonanze; si gioca con la scansione ritmico-sillabica; si osa con l'uso di nuove parole.
Agata Calise ✍️🤗
 

sabato 1 gennaio 2022

REAGIRE AL PIANTO - cosa svela?

Ogni giorno cerchiamo di batterci contro le stereotipie di genere, eppure i nostri piccoli gesti inconsci, le nostre reazioni amorevoli impulsive, come genitori o educatori, tradiscono il fedele attaccamento ai pregiudizi culturali che condizionano il nostro comportamento e l’imprinting che diamo a quello dei nostri bambini e delle nostre bambine.




👇Queste tipiche reazioni compromettono e ostacolano qualunque cambiamento migliorativo avessimo in mente. Vale la pena fermarsi un attimo, riflettere, divenire più consapevoli di ciò che facciamo, conferire valore ad ogni singola azione. Perché è dalle piccole cose che si raggiungono grandi risultati, così come è dalle piccole cose che si genera un loop da cui è difficile uscire.👇

 

Alle bambine, a differenza dei loro coetanei maschi, è concesso piangere, lamentarsi, frignare perché considerate culturalmente più esposte alle ingerenze esterne, più fragili, più indifese. In una parola, vittime! E le bambine imparano ben presto che per legittimare quel pianto, quel malessere, devono riuscire a trovare una causa, una ragione che sia valida per chi ha il compito e sente il dovere forte di tutelarle, in primis quindi per i loro genitori. Diventa pertanto una consuetudine inventare le scuse più disparate che configurano “la tragedia” che l’adulto si attende di sentire nel vedere la propria figlia piangere. È il modo più semplice, infatti, anche per gli adulti, di spostare l’accento non su cosa provi la bambina, la cui presa in carico presuppone una spiccata competenza emotiva da esercitare già sulle proprie emozioni, ma il perché sia stata costretta a provarlo, attivando così durante il percorso della vita una vera e propria “caccia alle streghe”. Il problema è che un genitore, agendo in questo modo, sortisce proprio l’effetto contrario alla tanta auspicata, e certamente auspicabile, tutela: con quali strumenti riuscirà a quel punto a distinguere quando la bambina mente e quando sta raccontando una situazione di pericolo o molestia realmente accaduta? Ma la cosa grave è che neppure la bambina che inventa è in grado di stabilire una cesura tra la sua fantasia e la realtà, pertanto si troverà preda dello stesso stato di angoscia da cui è colto il genitore mentre la ascolta, e questo la porterà inevitabilmente ad un atteggiamento di diffidenza nei confronti degli altri, quando il genitore non riesce a sopraffare la causa apparente, o ad un atteggiamento di arroganza e prepotenza, che può sfociare in bullismo, se il genitore con le sue rimostranze riesce ad avere la meglio. Il genitore, infatti, vuole che la propria figlia assista e sappia esattamente come e quanto lui è disposto a difenderla, con le nefaste conseguenze a cui abbiamo appena accennato. Ed è tutt’altro che inusuale trovare nelle donne adulte uno stile di vita e di approccio al conflitto irretiti da questo circolo vizioso.

Ai bambini, a differenza delle loro coetanee femmine, spesso viene ancora negato il diritto al pianto reagendo a questa espressione di sofferenza con frasi che rinnegano la stessa emozione che l’ha prodotta: <<smettila di piangere! Sei una femminuccia?>> oppure <<ma perché piangi? Sei un bambino piccolo?>> ma la lista è lunga.  Notare che “femminuccia” e “piccolo” assumono la valenza semantica di sinonimi usati per configurare non una situazione contingente, ma uno status personale permanente di inferiorità che mal si addice ai giovani “ometti”. Un maschio degno di questo genere è forte e si sa difendere e non ha bisogno di ripiegare nel pianto, segno tangibile di impotenza e frustrazione. Con quali conseguenze? Il bambino comprenderà ben presto che per avere la stima dei propri genitori dovrà imparare a cavarsela da solo, cercando di uscire sempre vincitore dalle situazioni di conflitto e competizione. Quando non ce la fa se ne guarda bene dal dirlo. Mentre il suo organismo trasforma la frustrazione in ira funesta per prepararlo all’azione "riparatrice". L’assenza prolungata di un’adeguata mediazione nella risoluzione conflittuale, infatti, coltiva e sedimenta nel bambino, ragazzo, uomo la necessità di tutelare direttamente il proprio Sé per non percepirsi come un debole, una vittima. Questo lo porta ad accanirsi con tutte le sue forze e con ogni mezzo contro il potenziale rivale, scatenando su di lui/lei tutta la rabbia generata non tanto dal conflitto in sé, ma dal fatto che ogni conflitto mette a repentaglio il proprio (paradossalmente) fragile Sé. Ogni ragazzo o uomo che si rispetti si sente legittimato culturalmente a “fargliela pagare” con mezzi propri: è un suo preciso dovere, ancor prima che diritto! E se questo non avviene egli diventa, o teme di diventare, oggetto di derisione. Ecco perché la “resa dei conti” deve essere pubblica, perché bisogna dare una testimonianza forte e lasciare una traccia indelebile della propria “superiorità”, costi quel che costi. Forse la correlazione vi sembrerà azzardata, ma bullismo, stupri e femminicidi, ad esempio, seguono, quasi sempre, come iter di prassi proprio questo script.

🔒Come si può ben comprendere, quindi, né in un caso né nell’altro il pianto viene considerato nella sua valenza autoreferenziale, come eminente espressione di uno stato di malessere non sempre riconducibile ad una causa esterna da eliminare. Questo atteggiamento di ricerca del colpevole impedisce di recepire il malessere che sfocia in pianto come sintomo di una fragilità interiore che fa parte del bambino, così come dell’adulto, sia come momento transitorio di adattamento alle nuove situazioni di stress, sia come componente caratteriale che va accolta, sostenuta e incoraggiata proprio al fine di trasformarla in una dimensione che ci appartiene, che possiamo esprimere senza riserve e che proprio per questo ci fa sentire sempre più consapevoli e quindi più padroni delle situazioni stressanti, cioè inevitabilmente più forti, senza correre il rischio di sedimentarla in un gap che si frappone tra noi e il resto del mondo.

🔑Lasciamo che i bambini e le bambine vivano le loro emozioni liberamente e usino la loro fantasia per creare un mondo migliore, e non per riprodurre fedelmente quello che appartiene a noi e da cui, paradossalmente, cerchiamo ogni giorno disperatamente di proteggerli.

Agata Calise

giovedì 30 dicembre 2021

MORALISMO PROVERBIALE

 


Hai presente il proverbio: 

"il diavolo fa le pentole ma non i coperchi"? 

Si dice comunemente che significhi: il male che viene fatto non può essere nascosto (l'assenza del coperchio infatti rende visibile il contenuto della pentola). 

Ma non è l’unica chiave di lettura di questa perla di saggezza popolare, anche se assolutamente valida qualora venissero alla luce le insidie che in realtà nasconde. Essa infatti, per via subliminale, ma neanche tanto, ci istruisce sulla distinzione tra il male e il bene:

 


tutto ciò che è incompiuto o incompleto rispetto a standard predefiniti incarna il male. In altre parole, il diavolo ci tenta con l’illusione di dare forma ai nostri desideri, ma non porta a termine la sua vana promessa. Il proverbio è quindi una subdola forma di coercizione della mente che facilmente cade preda del tranello. Ma non solo! Se nel male, come vuole il detto, si respira assenza di qualcosa, questa stessa assenza (la negazione) è qui lo strumento linguistico attraverso il quale si fa attecchire in noi l’idea che il male sia assenza di qualcosa. Un paradosso quindi utilizzare il presunto strumento del male per definire il male a fin di bene, facendo inevitabilmente apparire male ciò che male di fatto non può essere, in quanto strumento utilizzato dal bene. Insomma, se il vuoto, la mancanza, l’assenza è un male sarà altrettanto un male servirsene, oppure non lo è. O, se preferite, diciamo che con questo proverbio si combatte una battaglia con le stesse armi che si vogliono debellare attraverso la battaglia all'uopo ingaggiata.

 

Ma vediamo perché e con quali ricadute la mente si lascia ingannare da espressioni connotate da una struttura sintattica e semantica come quella del proverbio:

  • ·         La nostra mente tende a focalizzare l’attenzione su ciò che manca e non su ciò che è disponibile (chi si occupa di educazione e di formazione conosce bene in tal senso il valore del vuoto che intenzionalmente lascia)
  • ·         Siamo quindi portati a dare più valore al coperchio, un accessorio non indispensabile, piuttosto che alla pentola, elemento portante e fondamentale
  • ·         La capacità di traslare i significati ci porterà a ritenere inutile ogni elemento primario che non si accompagni alle sue articolazioni accessorie
  • ·         Ci troveremo ad apprezzare inconsciamente soltanto la completezza compiuta e preconfezionata, che rimanda all’idea di perfezione su cui si fonda la nostra società
  • ·         Le nostre attività sinaptiche costruttive saranno pertanto drasticamente ridotte assieme alla nostra capacità di interagire con le informazioni che riceviamo e di farle interagire tra loro, siano esse da cogliere tra le righe o dirette
  • ·         La possibilità di discernimento analitico tra bene e male si dissolve, mentre fanno capolino le uniche tre istanze alle quali possiamo quindi appellarci per orientarci nella vita: 
  1. 😍quella della credulità (mi amano perché sono da amare! Tutto è fatto ai fini del mio bene. Se mi fa stare bene dev’essere bene, che rimarrà tale anche se mi dovesse far star male); 
  2. 😡quella paranoide (mi vogliono irretire, ma non mi faccio fregare! Tutto nasconde un  inganno per colpirmi. Anche se apparentemente mi fa star bene dev’essere male, che rimarrà tale anche se continuerò a star bene); 
  3. 😜quella schizoide (tutti mi amano, nessuno mi ama! Tutto è fatto ai fini del mio bene, tutto è fatto per colpirmi. Se mi fa stare bene è bene, ma se non mi fa più stare bene non è mai stato bene, ma sempre male).

 

In conclusione

 Al diavolo non serve fare il coperchio perché è certo che il contenuto della sua pentola non schizzerà via tentando la fuga: sarà già cotto a puntino ancora prima di esservi entrato. E questo non sempre è male! D’altro canto, se questo è vero, la completezza della pentola col coperchio, che non permette al suo contenuto di schizzare via tentando la fuga, dovrebbe essere prerogativa dell’angelo. Ma questo non sempre è bene!

E allora, diciamocelo, Il problema fondamentale permane lo stesso: come si fa a distinguere il diavolo dall’angelo? Il male dal bene?

Il mio augurio per ogni giorno avvenire non può che essere questo: State sempre in guardia contro ogni condizionamento, ma frattanto non dimenticate di godere appieno di ogni momento di gioia e piacere!

Il disegno raffigura il principio della rana bollita di Noam Chomsky che trovi spiegato a questo link👇

https://www.tragicomico.it/il-principio-della-rana-bollita-noam-chomsky


Agata Calise

domenica 19 dicembre 2021

REAGIRE AL PIANTO - cosa svela?

 

Ogni giorno cerchiamo di batterci contro le stereotipie di genere, eppure i nostri piccoli gesti inconsci, le nostre reazioni amorevoli impulsive, come genitori o educatori, tradiscono il fedele attaccamento ai pregiudizi culturali che condizionano il nostro comportamento e l’imprinting che diamo a quello dei nostri bambini e delle nostre bambine.

👇Queste tipiche reazioni compromettono e ostacolano qualunque cambiamento migliorativo avessimo in mente. Vale la pena fermarsi un attimo, riflettere, divenire più consapevoli di ciò che facciamo, conferire valore ad ogni singola azione. Perché è dalle piccole cose che si raggiungono grandi risultati, così come è dalle piccole cose che si genera un loop da cui è difficile uscire.👇

 

Alle bambine, a differenza dei loro coetanei maschi, è concesso piangere, lamentarsi, frignare perché considerate culturalmente più esposte alle ingerenze esterne, più fragili, più indifese. In una parola, vittime! E le bambine imparano ben presto che per legittimare quel pianto, quel malessere, devono riuscire a trovare una causa, una ragione che sia valida per chi ha il compito e sente il dovere forte di tutelarle, in primis quindi per i loro genitori. Diventa pertanto una consuetudine inventare le scuse più disparate che configurano “la tragedia” che l’adulto si attende di sentire nel vedere la propria figlia piangere. È il modo più semplice, infatti, anche per gli adulti, di spostare l’accento non su cosa provi la bambina, la cui presa in carico presuppone una spiccata competenza emotiva da esercitare già sulle proprie emozioni, ma il perché sia stata costretta a provarlo, attivando così durante il percorso della vita una vera e propria “caccia alle streghe”. Il problema è che un genitore, agendo in questo modo, sortisce proprio l’effetto contrario alla tanta auspicata, e certamente auspicabile, tutela: con quali strumenti riuscirà a quel punto a distinguere quando la bambina mente e quando sta raccontando una situazione di pericolo o molestia realmente accaduta? Ma la cosa grave è che neppure la bambina che inventa è in grado di stabilire una cesura tra la sua fantasia e la realtà, pertanto si troverà preda dello stesso stato di angoscia da cui è colto il genitore mentre la ascolta, e questo la porterà inevitabilmente ad un atteggiamento di diffidenza nei confronti degli altri, quando il genitore non riesce a sopraffare la causa apparente, o ad un atteggiamento di arroganza e prepotenza, che può sfociare in bullismo, se il genitore con le sue rimostranze riesce ad avere la meglio. Il genitore, infatti, vuole che la propria figlia assista e sappia esattamente come e quanto lui è disposto a difenderla, con le nefaste conseguenze a cui abbiamo appena accennato. Ed è tutt’altro che inusuale trovare nelle donne adulte uno stile di vita e di approccio al conflitto irretiti da questo circolo vizioso.

Ai bambini, a differenza delle loro coetanee femmine, spesso viene ancora negato il diritto al pianto reagendo a questa espressione di sofferenza con frasi che rinnegano la stessa emozione che l’ha prodotta: <<smettila di piangere! Sei una femminuccia?>> oppure <<ma perché piangi? Sei un bambino piccolo?>> ma la lista è lunga.  Notare che “femminuccia” e “piccolo” assumono la valenza semantica di sinonimi usati per configurare non una situazione contingente, ma uno status personale permanente di inferiorità che mal si addice ai giovani “ometti”. Un maschio degno di questo genere è forte e si sa difendere e non ha bisogno di ripiegare nel pianto, segno tangibile di impotenza e frustrazione. Con quali conseguenze? Il bambino comprenderà ben presto che per avere la stima dei propri genitori dovrà imparare a cavarsela da solo, cercando di uscire sempre vincitore dalle situazioni di conflitto e competizione. Quando non ce la fa se ne guarda bene dal dirlo. Mentre il suo organismo trasforma la frustrazione in ira funesta per prepararlo all’azione "riparatrice". L’assenza prolungata di un’adeguata mediazione nella risoluzione conflittuale, infatti, coltiva e sedimenta nel bambino, ragazzo, uomo la necessità di tutelare direttamente il proprio Sé per non percepirsi come un debole, una vittima. Questo lo porta ad accanirsi con tutte le sue forze e con ogni mezzo contro il potenziale rivale, scatenando su di lui/lei tutta la rabbia generata non tanto dal conflitto in sé, ma dal fatto che ogni conflitto mette a repentaglio il proprio (paradossalmente) fragile Sé. Ogni ragazzo o uomo che si rispetti si sente legittimato culturalmente a “fargliela pagare” con mezzi propri: è un suo preciso dovere, ancor prima che diritto! E se questo non avviene egli diventa, o teme di diventare, oggetto di derisione. Ecco perché la “resa dei conti” deve essere pubblica, perché bisogna dare una testimonianza forte e lasciare una traccia indelebile della propria “superiorità”, costi quel che costi. Forse la correlazione vi sembrerà azzardata, ma bullismo, stupri e femminicidi, ad esempio, seguono, quasi sempre, come iter di prassi proprio questo script.

🔒Come si può ben comprendere, quindi, né in un caso né nell’altro il pianto viene considerato nella sua valenza autoreferenziale, come eminente espressione di uno stato di malessere non sempre riconducibile ad una causa esterna da eliminare. Questo atteggiamento di ricerca del colpevole impedisce di recepire il malessere che sfocia in pianto come sintomo di una fragilità interiore che fa parte del bambino, così come dell’adulto, sia come momento transitorio di adattamento alle nuove situazioni di stress, sia come componente caratteriale che va accolta, sostenuta e incoraggiata proprio al fine di trasformarla in una dimensione che ci appartiene, che possiamo esprimere senza riserve e che proprio per questo ci fa sentire sempre più consapevoli e quindi più padroni delle situazioni stressanti, cioè inevitabilmente più forti, senza correre il rischio di sedimentarla in un gap che si frappone tra noi e il resto del mondo.

🔑Lasciamo che i bambini e le bambine vivano le loro emozioni liberamente e usino la loro fantasia per creare un mondo migliore, e non per riprodurre fedelmente quello che appartiene a noi e da cui, paradossalmente, cerchiamo ogni giorno disperatamente di proteggerli.

Agata Calise

domenica 12 dicembre 2021

L'EMPATIA COGNITIVA E L'INTERCONNESSIONE MENTALE

 

Premessa

Quando parliamo di Empatia tutti sappiamo che ci stiamo riferendo ad un processo di immedesimazione con lo stato d’animo dell’altro. Tale processo, determinato da innumerevoli fattori, ci permette di diventare una vera e propria cassa di risonanza delle emozioni altrui, anche se gli eventi che le hanno scatenate non ci riguardano in prima persona.

Ma non tutti forse sanno che, oltre a quella del cuore, esiste un’Empatia cognitiva, mentale.

Di cosa si tratta?

Della capacità che abbiamo sin da piccoli di “leggere la mente” degli altri e di fare previsioni sulle loro future azioni.

Come succede?

Attraverso l’interpretazione del significato che fatti ed eventi possano avere per una specifica persona, di come questi possano quindi condizionare e pilotare il suo comportamento, e di come quest’ultimo possa essere oggetto di plausibili predizioni.

In quali occasioni succede?

Quando attribuiamo uno stato mentale o, se preferite, quando esercitiamo la psicologia ingenua o del senso comune.

Cosa vuol dire attribuire uno stato mentale?

Vuol dire essere in grado di attribuire agli altri intenzioni che vertono su qualcosa o qualcuno, si dirigono verso qualcosa o qualcuno, in funzione dei loro desideri, credenze, speranze, ecc. Vuol dire cioè fare una metarappresentazione, ovvero una rappresentazione della rappresentazione mentale di un altro, secondo la formula: S crede/desidera/spera che p

Un esempio di generalizzazione psicologica ingenua:

se S desidera che p, e S crede che p se q, allora S farà in modo di causare q

Cosa ci permette di fare l’empatia cognitiva?

Ci permette di vedere le cose da un particolare punto di vista dal quale assumono rilevanza; di ragionare in funzione delle informazioni che gli altri possiedono in merito ad una particolare questione, tenendo conto dei loro desideri, credenze, speranze, ecc., e fare quindi delle predizioni sulla loro attività futura e sui loro processi motivazionali. Ma ci permette soprattutto di diventare parte attiva e consapevole nella relazione con l’altro, di guidarla verso la positività, ma anche di allentarla o troncarla, a seconda dei casi, con l’autoregolazione “preventiva” che l'interconnessione mentale consente di attivare.

Quali sono le dotazioni per esercitare l’empatia cognitiva?

Secondo la Teoria della mente possediamo moduli della mente specializzati che, in base agli esiti delle ricerche scientifiche, si sviluppano progressivamente e non simultaneamente. Un deficit del loro funzionamento compromette lo sviluppo della competenza comunicativa e sociale: SP (Selection Processor) è uno di questi, si sviluppa intorno ai 4 anni ed ha la fondamentale funzione di selezionare e inibire momentaneamente il nostro punto di vista (le informazioni che possediamo, i nostri desideri, le nostre credenze e le nostre speranze) per accogliere quello altrui.

A quale età i bambini si predispongono ad essere empatici?

Per offrire una risposta al quesito i teorici della mente si rifanno al prototipo del test delle false credenze: la storia di Sally e Anne (Baron-Cohen, 1995), di cui Wimmer e Perner ci offrono una versione semplificata. (immagine a fianco)

<<Sally ha una biglia e la ripone nel cestino, poi esce. Mentre lei è fuori, Anne prende la biglia dal cestino e la mette nella scatola. Ora Sally torna e vuole la sua biglia. Dove la cercherà?>>

“Centinaia di esperimenti condotti con questo tipo di prove hanno trovato che prima dei 4 anni i bambini tendono a rispondere sulla base della realtà fisica (dicono -nella scatola-), mentre quelli di 4-5 anni, come gli adulti, tendono a dire -nel cestino- , rivelando un ragionamento basato sulla credenza falsa che Sally ha sulla collocazione della biglia (Wellman, Cross, Watson, 2001).

[…] Un indizio che anche prima dei 3 anni i bambini sono in grado di attribuire stati mentali epistemici viene fornito dai loro comportamenti comunicativi (…) e dalla comparsa del gioco di finzione (…).” (L. Surian, Lo sviluppo cognitivo, 2009)

 Qual è la funzione della finzione e qual è il relativo modulo specializzato?

I comportamenti di finzione, sintomi della precoce capacità di usare metarappresentazioni, si fondano sulla credenza della falsità dell’inganno (il bambino che accetta di usare la banana offerta dalla mamma come cornetta telefonica sta giocando sul filo che separa l’inganno – è una banana e non un telefono- dalla falsità dell’inganno – siamo complici nel far finta che… pur sapendo che non è vero. Il piano della realtà e il piano simbolico collaborano richiamandosi reciprocamente, pur rimanendo perfettamente separati nelle rappresentazioni del bambino. Una corretta rappresentazione della realtà è fondamentale “per la sopravvivenza della persona, che deve poter cogliere le opportunità laddove queste si presentino o, viceversa, saper evitare i pericoli”. Ma le distorsioni sulla realtà che la finzione produce sono volontarie e non frutto di un errore cognitivo: il bambino non si sta sbagliando, non sta sognando o delirando, ma sta intenzionalmente giocando a far finta. Attraverso il gioco il bambino sta allenando la sua capacità empatica, sostenendo lo sviluppo del correlato modulo mentale. Il modulo che permette la finzione, TOMM (Theory of Mind Mechanism), si sviluppa verso i 18 mesi e costituisce il cuore della psicologia ingenua. (C. Meini, Psicologi per natura, 2007).

Conclusioni

Alla luce di questi elementi, si comprende bene come parlare di empatia riconducendola esclusivamente alle emozioni non può esaurire l’intricata e affascinante dimensione di questo processo che coinvolge simultaneamente l’aspetto emotivo, cognitivo e culturale della persona, anche se ciascuno di essi può avere un impatto così forte sul processo da precludere l’empatia tout court cominciando a “parcellizzarla”.  MA DI QUESTO PARLEREMO NEL PROSSIMO ARTICOLO

Agata Calise

 

 

 

domenica 21 novembre 2021

FESTA DELL'ALBERO

COME PROMUOVERE NEI BAMBINI UNA CULTURA GREEN?🌳🍀

COME AVVIARLI AL RISPETTO CONSAPEVOLE E INTENZIONALE DELLA NATURA ?


Complice l’autunno, l’albero è stato in questo periodo oggetto di scrupolosa osservazione e variegata conoscenza. 

Ma come si può far cogliere ai bambini la relazione causale tra l’albero e la vita dell’uomo? In altre parole, da dove si parte affinché l’importanza dell’albero sia compresa dai bambini in modo incisivo e persistente? 

Come per ogni concetto complesso, il percorso di apprendimento va destrutturato e ricostruito sulle conoscenze già possedute dai bambini e sulle quali fare leva per scuotere il contenuto emotivo-valoriale che le accompagna. Fare emergere impressioni cognitive nelle quali il bambino è il protagonista permette successivamente di attivare processi di riflessione e immedesimazione per analogia, anche quando la situazione li vede come semplici osservatori. Questa modalità di apprendimento consente, quindi, al contempo di allenare progressivamente i bambini al decentramento del proprio Sé, anche se metaforicamente sempre presente sullo sfondo come radice dello sviluppo del concetto, e all’accoglimento di quello altrui. 

💞Educando alla conoscenza, educo trasversalmente all’emozione e all’empatia, al cuore delle quali si può giungere soltanto indirettamente.

Facciamo un esempio partendo da un presupposto valido nella stragrande maggioranza dei casi: 

ogni bambino ha una casa in cui tornare dopo la scuola, le attività pomeridiane e le passeggiate o la spesa, ecc. 


1. Accendiamo il loro immaginario e recuperiamo la conoscenza attraverso la memoria emotiva con una semplice affermazione. <<Che bello poter tornare a casa quando fuori fa freddo, o sono stanca ed ho voglia di riposare, oppure ho fame e voglio fare uno spuntino, ecc. >> Attendiamo qualche secondo e poi facciamoli entrare nella conversazione: <<Succede anche a te?>> Dai, raccontami: <<Cosa ti piace fare quando sei a casa?>>

I bambini faranno a gara per poter raccontare un’esperienza pregna per loro di significato emozionale (l’emozione recuperata costituisce già di per sé un impulso all’azione motoria, tradotta in questo caso nella produzione verbale del racconto). 

2. Quando la casa attraverso le loro testimonianze avrà assunto un ruolo di preminenza nel benessere di ciascuno, spostiamo l’attenzione sui protagonisti dell’autunno che abbiamo avuto modo di conoscere attraverso le attività pregresse: gli animali che vanno in letargo.        

Recuperiamo le informazioni che i bambini ricordano in proposito (che equivale anche alla verifica degli stessi apprendimenti) ipotizzando e dubitando, e non affermando: <<Mi sembra di ricordare che anche quegli animali di cui parlava la storia “x o y” volevano una casa…, vero?>>.  <<Però non ricordo il perché. Che fanno questi animali nella casa?>>    


Parte il brainstorming dei bambini…    💭💬

Accogliendo le loro suggestioni si può replicare: <<Io però non ho mai visto la casa di un orso nella nostra città. Dove vive? Voi lo sapete?>>

Se anche i bambini non sapranno nominare esattamente gli ambienti di vita di questi animali useranno tutte le espressioni possibili per farti capire che hanno compreso che vivono dove ci sono tanti alberi. 


3. Quello è il momento in cui puoi associare il concetto di casa al concetto di albero.  <<Ma allora mi state dicendo che questi animali vivono IN MEZZO agli alberi? O vivono SOPRA gli alberi? O DENTRO gli alberi? O SOTTO gli alberi?>>

Saranno le stesse risposte dei bambini che amplieranno il concetto di casa-albero al di là dell’argomento del letargo e di ambienti di vita distanti dal loro: <<Gli uccellini vivono sopra l’albero, sui rami>>. Se hai la fortuna di avere qualche albero intorno puoi prevedere di fare una breve uscita con i bambini per vedere se trovate gli uccellini o le loro “casette”.  Questa “divagazione”, infatti, serve per mettere a fuoco il nostro concetto di partenza, facendo in modo che abbia sempre un aggancio con ciò che i bambini già conoscono. 

Riporta adesso l’attenzione sugli animali che vanno in letargo e in particolare su quelli che vivono dentro e sotto l’albero, ripercorrendo la strada della storia che hai utilizzato per presentarli ai bambini.


4. Adesso che è emerso che ogni parte dell’albero serve ad offrire uno specifico riparo in funzione delle abitudini e necessità degli animali che ospita, avvia la conversazione verso la sua conclusione: <<Ma allora senza i loro alberi questi animali non avrebbero più la loro casa e morirebbero di freddo, di fame, di sonno? Poverini!>>. <<E noi come possiamo aiutarli? Dobbiamo tagliare o proteggere gli alberi?>>

La risposta dei bambini non lascerà spazio a dubbi sul da farsi, ma non darla per scontata e valorizzala con un’ultima affermazione: <<Allora me ne ricorderò e cercherò di prendermi cura degli alberi anch’io come voi. Grazie bambini!>>


Certo, la strada verso la correlazione albero-uomo-vita è ancora distante ma deve necessariamente passare attraverso fasi intermedie come la correlazione albero-animale-vita, nella quale, come spero di aver chiarito, la concatenazione è per i bambini di immediata intuizione (se accompagnata da un’efficace mediazione).

Se mancano questi fondamentali passaggi, si possono fare meravigliosi lavori sull’importanza dell’albero, ma si correrà il rischio che rimangano sterili dal punto di vista della formazione, e che il bambino percepisca questa importanza (attribuita dall’adulto) in modo superficiale poiché acquisita senza la sua personale intuizione.


💥P.S.: è bene tener presente che questi percorsi di apprendimento e gli argomenti trattati possono (sarebbe anzi auspicabile lo facessero) scoperchiare “il vaso di Pandora” e innescare dinamiche di difficile gestione. Potresti cioè imbatterti in bambini per i quali la casa e il clima che vi respirano dentro rimanda a sensazioni ed esperienze tutt’altro che positive
. Bisogna quindi essere pronti ad accogliere eventuali manifestazioni di disagio, anche profondo, attuando tutte le necessarie divagazioni per esprimere il malessere, prima sul piano simbolico e poi su quello reale. 


Ma se questo può succedere è proprio perché sul piano simbolico-metaforico, anche se non ancora su quello reale e della consapevolezza, le diadi albero-vita e vita-benessere i bambini le hanno intuitivamente colte nella loro pienezza e nella loro interconnessione.



Agata Calise



domenica 14 novembre 2021

SULLA GENTILEZZA

 

Sappiamo davvero educare alla gentilezza o mettiamo in atto solo giochi di potere?

L’etimologia della parola gentilezza evoca una caratteristica dell’animo umano naturale e spontanea che diventa evidente attraverso gesti e comportamenti compatibili con un animo, appunto, gentile.

Tutte le volte che quindi adoperiamo un metodo coercitivo per ottenere gentilezza da qualcuno stiamo producendo un ossimoro concettuale, procedurale, comportamentale. O come direbbe Jon Elster, ci troviamo dentro la “fallacia morale e intellettuale degli effetti secondari”.

Chiariamo meglio.

L’ingiunzione “sii gentile!” ha lo stesso valore di “sii spontaneo!” Entrambe contengono infatti un evidente paradosso: la spontaneità, e di conseguenza la gentilezza, è per sua natura qualcosa sulla quale non può gravare l’intenzionalità della persona. Sono spontaneo quando lo sono spontaneamente, ma se intendo essere spontaneo intenzionalmente annullo già la spontaneità che sto ricercando. Ci sono pertanto stati mentali e sociali realizzabili solo per vie traverse e non direttamente, per mezzo cioè di azioni che hanno altri fini rispetto alla realizzazione di quel preciso scopo.

Alla luce di quanto hai letto,

se impongo ad un bambino di utilizzare alcuni termini specifici per formulare la sua richiesta, le famose paroline magiche, senza le quali non otterrebbe mai il risultato sperato, cosa sto facendo in realtà, lo sto educando alla gentilezza? O sto solamente pretendendo che simuli la gentilezza, attraverso l’uso intenzionale di un convenzionale repertorio lessicale all’uopo destinato?

Sai qual è la prospettiva comportamentale cui conduce questa procedura educativa?

Il bambino apprende che l’adulto ha l’autorità di decidere se accontentarlo o meno e detiene il potere di dettare le perentorie condizioni del suo soddisfacimento. Nessun circolo amorevole configura e avvolge queste situazioni che il bambino sente come doppiamente frustranti: la frustrazione dell’imposizione, la frustrazione dell’impotenza di resistere all’imposizione. Non meravigliarti quindi se il bambino comincia a condurre giochi di potere e autorità per vedere dove e con chi la spunta e dove e con chi deve soccombere. E non essere troppo felice di sostenere: <<con me non lo farebbe mai, non si permetterebbe!>> se questo risultato è generato dalla paura dell’autorità che rivesti. Se la formazione ruota attorno a questi due concetti, l’autorità e il potere, il bambino impara infatti l’arte della prostrazione, diventa accomodante e compiacente, a tratti servile, quando sente di non avere alternativa. Mentre si mostra arrogante e prepotente, simulando esattamente quello che ha appreso, quando sente di poter avere la meglio sull’altro. Quelli che chiamiamo capricci non hanno forse questa genesi?

Perché la mettiamo in atto?

Ogni volta che un bambino si rivolge a noi dicendo VOGLIO, DAMMI x o y ci sentiamo immediatamente irritati per la PRETESA che il bambino avanza, e questo è assolutamente normale. Tuttavia, non è educativo rispondere alla pretesa con un’altra pretesa, che annulla dentro di noi l’ingerenza provocata dal bambino: sarebbe una risposta emotiva, ma non professionale.

Se un bambino ti dice “voglio l’acqua” (perché sa che non può servirsela da solo) o “dammi le costruzioni” (perché sono posizionate troppo in alto per poterle prendere da solo) ti sta soltanto manifestando un bisogno, ti sta chiedendo aiuto. Ma se dentro di te si attivano i meccanismi emotivi sopra descritti, sarà difficile distinguere l’espressione di una necessità dall’intenzione di schiavizzarti, generando risposte incontrollate che hanno il solo intento di stabilire chi comanda (presta attenzione al tono di voce che usi e alla postura del tuo corpo quando a queste “provocazioni” rispondi: solo se lo chiedi per favore, solo se usi le paroline magiche -ma davvero negheresti la possibilità di bere a un bambino che non sa chiederti l’acqua come si conviene? Immagino di no, e se il bambino non cede, sarai tu a farlo e a diventare ai suoi occhi poco credibile).

 Come si può ovviare a tutto questo?

Tieni conto che il bambino arriva a scuola con un bagaglio di conoscenze precedentemente apprese e che noi abbiamo la funzione di sistematizzare. Anche con i codici espressivi convenzionali i bambini hanno di solito una certa familiarità, prima del loro ingresso a scuola. Ma affinché il bambino dia un senso alle sue conoscenze è necessario che ne tasti direttamente l’efficacia in un contesto che richiama ed evochi il tipo di educazione che vogliamo sviluppare.

Concediamoci intanto la possibilità di fare un passo alla volta. I bambini piccoli, soprattutto se non italofoni, hanno difficoltà nel manifestare i loro bisogni. Aiutarli in questa fase vuol dire frammentare in parti semplici la proposizione che alla fine saranno in grado di esprimere. Incoraggiamoli a dire seguendo un semplice schema di costruzione linguistica: acqua - mi dai l’acqua? - maestra, mi dai l’acqua? -  maestra, mi dai l’acqua, per favore? Dove “per favore” non ha ancora connotazioni etiche, ma soltanto linguistico-formali. E cerchiamo di rispondere sempre manifestando soddisfazione nel poterli accontentare-aiutare: “certo, te la verso con piacere”, se il bambino ha espresso verbalmente il bisogno. Oppure leggiamo e interpretiamo il suo comportamento traducendolo verbalmente: se il bambino guarda con insistenza la bottiglia dell’acqua e poi cerca il tuo sguardo, “hai bisogno di qualcosa? Posso aiutarti? Vorresti dell’acqua?” -indicando la bottiglia o sollevando il suo bicchiere. Mostrare una paziente accoglienza verso le sue necessità è un modo incisivo di educarlo alla gentilezza verso il prossimo.  In quale altro contesto “per favore” comincia ad incarnare per il bambino e per la comunità un valore emotivo, ed etico di conseguenza -non il contrario- e diviene sinonimo e sintomo di reale e sentita gentilezza? I conflitti tra pari per accaparrarsi un giocattolo sono all’ordine del giorno. Come possiamo trasformarli in un bacino di apprendimento positivo e di educazione all’affettività? È la ferma gentilezza con la quale tu intervieni che può trasfigurare una situazione di ostile aggressività, proiettandola verso una dimensione costruttiva.

Esempio. M.: <<cosa succede, bambini?>>

A:<<Ce l’avevo io!>> B:<<Dammelo, mi serve!>>

M.: <<ti sta dicendo che lo stava usando lui, sei sicuro che non ce ne sia un altro libero che puoi usare tu?>>

1) B: <<non lo so>> M.: <<ti aiuto a cercarlo, magari lo troviamo. E intanto possiamo lasciare A libero di giocare tranquillamente>>

2) B: <<No, li ha presi tutti>>. M.: <<Forse non gli servono tutti, hai provato a chiedergliene uno?>> Se il bambino chiede, il compagno solitamente concede.

Ma non è detto. Se il compagno non concede: M.: <<spiegagli che per adesso ti servono e che non appena avrai finito potrà prenderli>>. L’uno spiega, l’altro solitamente accetta di attendere. M.: <<mentre aspettiamo, ti va se facciamo insieme…>>

La magia della gentilezza 


non risiede nelle parole di completamento formale di una richiesta, ma nel modo stesso in cui strutturo l’intera proposizione, nel modo globale con cui mi pongo nei confronti dell’altro. Ecco perché frasi del tipo: <<stai zitto, per piacere!>> <<vieni immediatamente qui, per favore!>>, pur contenendo le paroline magiche che ci affanniamo ad insegnare, non emanano alcuna gentilezza.

Bibliografia

Elster Jon, Sour Grapes, trad. it, 1989

Elster Jon, Ulysses and the sirens, trad. it, 1983


Pronunciare con piacere una parola sapendo che provoca benessere in chi l’ascolta è ben diverso che pronunciarla perché è l’unico modo di ottenere ciò che voglio.

Agata Calise